Con questo breve articolo voglio provare ad analizzare da lettrice e da piccola scrittrice un fenomeno che nel fantasy è consolidato da anni, un’abitudine che si è fatta regola.
La sindrome della saga.
Noi tutti vecchi lettori che sin dall’infanzia o dalla prima adolescenza ci siamo avvicinati al fantasy sappiamo che il genere si ispira alle antiche saghe e all’epica in generale, e quindi ci sembra normale se non dovuto che le storie a cui ci appassioniamo continuino in tomi e tomi (ovviamente, parlo di opere di autori anglofoni). Ce lo aspettiamo. Siamo cresciuti con serie e trilogie, che siano quelle di Tolkien o di J.K.Rowling. Quasi restiamo delusi se non ci sono almeno due o tre libri da leggere che portino avanti le gesta dei nostri beniamini.
Personalmente, sono una grande appassionata di saghe, mi affeziono ai personaggi, mi piace seguire le loro avventure e porto il lutto quando l’autore chiude con la fatidica parola “fine”. E’ difficile che io trovi una saga noiosa, o che non decida di proseguire nella lettura una volta che inizio.
Vale anche per il fantastico italiano?
La sindrome della saga è praticamente endemica nella letteratura fantastica italiana. Gli autori, che sono spesso profondi conoscitori e amanti del genere, creano la loro ambientazione, i loro personaggi e vogliono far vivere a questi personaggi mille avventure.
Questo non è un difetto anzi: se la saga è ben fatta, l’ambientazione è originale (o tratta in modo originale i cliché del genere) e i personaggi sono ben costruiti, una serie fantastica di un autore italiano può essere piacevole quanto l’opera di un famoso autore anglofono (penso alla saga di Derbeer dei mille anni, o a quella dell’inquisitore Eymerich), scavando un posto nel cuore del lettore che accetta mal volentieri di vederla conclusa. Ma si tratta di rare eccezioni, in una produzione di saghe che rischiano di suonare ripetitive.
Il problema è che spesso in realtà le serie italiane sono dispersive, poco appassionanti e soprattutto mancano di originalità, come se l’autore che tanto ha letto in passato (e che magari è anche appassionato di manga o anime giapponesi, altra fonte inesauribile di saghe fantastiche) invece di cercare una strada nuova decida di mettere insieme le sue conoscenze senza impegnarsi troppo a trattare un topos classico in modo innovativo, creando un mix che spesso ha un sapore già sentito.
Oppure, un autore, magari giovane, non molto familiare con il genere, non sapendo cosa già è stato scritto, non è in grado di distinguere il già visto dal nuovo. Molte nuove saghe, anche straniere in realtà (penso a quella della Troisi, restando su terreno illustre, o di Paolini uscendo dall’Italia) hanno questo difetto: seguono un canone piuttosto banale, nel quale un vecchio lettore riesce a riconoscere facilmente gli spunti e non sempre si prova il desiderio di andare avanti nella lettura.
Non sarebbe meglio allora avere il coraggio di guarire dalla sindrome e selezionare il materiale per creare un unico appassionante romanzo, magari più lungo, tagliando i tempi morti e le scene inutili? Da piccola scrittrice dico: è difficilissimo e spesso poco soddisfacente. E infatti lo fanno in pochi, e spesso si mantiene la possibilità di un seguito (o di un riciclo di ambientazione) con un finale aperto. Perché il fantastico è così, il lettore si aspetta il seguito… e in Italia il lettore non ama il romanzo troppo lungo. Inoltre, spesso l’editore italiano, soprattutto se è un piccolo editore non ama il libro lungo (che è difficile da distribuire) e vuole guadagnare dalla tripla vendita. E noi siamo invasi dalle serie e dalle trilogie.
Da appassionata lettrice, sto imparando ad apprezzare sempre di più il romanzo autoconclusivo: spesso è più appassionante, meno dispersivo e più curato di una saga. Che poi sotto sotto spesso io speri in un seguito, magari in futuro, magari non proprio collegato alla trama principale… questa è un’altra storia.
La Sindrome della Saga
15 lunedì Apr 2013
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